Neppure nei laboratori di Csi Miami avrebbero potuto fare meglio. Magari prima, ma non meglio. Ora è chiaro che a rendere giustizia a Yara Gambirasio, uccisa poco più che bambina e non ancora adolescente in un modo orribile, che nessuno riesce a dimenticare, sarà forse la doppia elica del Dna, scoperta nel 1953, valsa un Nobel e diventata da qualche tempo uno strumento formidabile in mano agli inquirenti per risolvere misteri che altrimenti rimarrebbero tali.
Molto più di un’impronta digitale il codice genetico è unico e irripetibile, ogni individuo ha la sua serie di mattoncini che non può appartenere a nessun altro dei sei miliardi di esseri umani presenti sulla faccia della Terra. Quindi è la nostra fotografia più autentica e incontrovertibile.
Basta una minuscola e invisibile macchia di sangue, una goccia impercettibile di saliva, un frammento di pelle, un bulbo di capello. Lì c’è tutta la nostra storia, e la storia della nostra famiglia, la traccia dei nonni, parenti anche molto lontani. Così come è stato per il caso di Brembate, nel quale il presunto colpevole è stato scovato a partire da una traccia genetica di un lontano cugino. Tanto più è vicino il grado di parentela biologica, tanto più è sovrapponibile il profilo genetico: un padre o una madre avrà un’aderenza maggiore di una zia, il fratello più del nonno. Ma la storia famigliare è evidente, e se il test è fatto bene esce sempre.
La storia di Yara è esemplare. Partendo da una piccola traccia sui pantaloni della ragazza è stato trovato un Dna maschile, è stato replicato, potenziato per essere più visibile, si sono isolati 16 frammenti che hanno composto la tavolozza sulla quale sovrapporre le tracce genetiche dei sospettati . Da qui, come il capo di un filo d’Arianna gli inquirenti con pazienza sono risaliti. Il primo sussulto lo hanno avuto quando tra i ragazzi di una discoteca vicino al campo dove è stato abbandonato il corpo di Yara hanno trovato una coincidenza genetica. Non è totale, anzi è piuttosto bassa sotto il 30%, ma è evidente e di sicuro è un punto di partenza. Alcuni frammenti si sovrappongono, altri no, poniamo il caso che su 16 frammenti solo 4 siano aderenti. Non è il killer ma sta nella linea genetica. Infatti si rivelerà un cugino – inconsapevole – alla lontana. Gli inquirenti afferrano questo filo e lo seguono. Passano al setaccio i componenti di questa famiglia, la famiglia Guerinoni, non si accontentano dei vivi ma cercano riscontri anche sui defunti. Le coincidenze genetiche vengono confermate, ma non sono ancora abbastanza. Finché non arriva il vero colpo di scena: da una vecchia marca da bollo si arriva alla saliva e poi al Dna del capostipite della famiglia, Giuseppe Guerinoni, che si sovrappone a tal punto che si può dire che è il padre biologico del presunto assassino. Il puzzle si compone, con la difficile scoperta della madre il quadro è completo, il suo patrimonio genetico si unisce per avere per intero quello del killer di Yara.
Il Dna non mente mai, proprio perchè è un’impronta univoca. Certo, ci può essere l’errore umano, il test fatto male, un campione contaminato. E’ per questo che i campioni vengono replicati e gli esami ripetuti per ridurre al minimo l’errore. Ma una volta che si è escluso, il test è infallibile, dà nome e cognome ad ogni persona, ci dice tutto di noi. Non ci si può nascondere al test del Dna. E’ la pistola fumante, anche se in questo caso ci sono voluti tre anni e mezzo e svariate migliaia di prelievi e di analisi.